«Quando si parla della cura in educazione mi viene in mente una parola: attenzione. Attenzione per grandi e piccole cose, attenzione soprattutto nell’osservare, nella capacità di valutare, di rendersi conto, di riuscire a “leggere” con adeguatezza i reali bisogni dei bambini o del bambino»[1].

La nostra scuola ha preso atto di quanto sia necessario promuovere l’attenzione mirata al soggetto dell’apprendimento, che lo integri in un tessuto di relazioni vivo e vitale, che gli permetta di mettere ordine nella propria esistenza, mantenendo quel calore di affetti che schiude la ricerca di identità ad un senso originale ed irripetibile.

Andrea Canevaro definisce questo approccio educativo come il “saper covare il caos”, ritenendo che chi educa debba saper attendere che un tepore diffuso faccia schiudere la situazione stessa: un educatore dovrà avere la leggerezza che non “rompe l’uovo”, ma anche garantire quella copertura che permette all’uovo di vivere nel calore[2].

 


[1] LUIGINA MORTARI, La pratica dell’aver cura, Bruno Mondadori, Milano 2006, p. 50.

[2] Cfr. ANDREA CANEVARO, La formazione dell’educatore professionale, La Nuova Italica Scientifica, Roma 1993.

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